Ci serviamo tutti i giorni dei loro servizi digitali per svolgere il nostro lavoro, condividere le esperienze quotidiane e ricercare informazioni preziose.
Sono loro che ospitano le nostre campagne pubblicitarie di performance marketing e supportano lo shopping online, ci aiutano a trovare luoghi e spostarci da un posto a un altro, sono canali di intrattenimento e forniscono strumenti per fare efficaci attività di branding: stiamo parlando di Google, Microsoft, Apple, Meta, Amazon, TikTok e tutti gli altri grandi provider di servizi digitali.
Per loro, la scorsa settimana è stata fonte di gioie e dolori, grosse soddisfazioni e altrettanto grosse gatte da pelare. Innanzitutto, però, è bene conoscere il concetto di “essential facility” per discutere di Big Tech. Oggi partiamo da qui per capire cosa sta succedendo a queste grandi aziende tecnologiche che hanno recentemente rilasciato i dati sui primi quarter e sono state appena messe alle strette dalla Commissione europea.
Cosa significa essential facility?
Allo stato dell’arte perfino l’aggettivo “big” risulta essere riduttivo quando si parla delle major del tech. Si tratta ormai di veri e propri giganti per guadagni, numero di utenti e portata del servizio che offrono.
Oggi, infatti, l’importanza delle Big Tech appare strategica anche per lo sviluppo di altri mercati e per potenziali nuovi concorrenti. Diventare così grande o, come si è detto in passato, “too big to care”, significa assumere il ruolo di strada obbligata su cui dover necessariamente transitare se si vuole fare business online. Per tale motivo, il loro prodotto diviene una risorsa essenziale e insostituibile, pertanto l’accesso deve essere garantito al richiedente.
Per fare un esempio, un nuovo player che desidera entrare nel mercato, il cui ingresso dipende dall’accesso a una determinata risorsa detenuta da un terzo, può richiedere e ottenere l’accesso della suddetta nel caso in cui si tratti di un’essential facility, vale a dire un’infrastruttura essenziale in nome dell’antitrust.
Che le Big Tech costituiscano o meno infrastrutture essenziali dipende dai punti di vista. Eppure va detto che è anche grazie a tale concetto, definito nel 2004 dalla Commissione di Mario Monti, se negli anni nuovi operatori hanno potuto accedere liberamente al mercato digitale. A partire da qui, in sostanza, si è tentato di limitare il monopolio dei Big e favorire la concorrenza, la nascita e lo sviluppo di piccole e medie imprese.
Ora è il momento di tornare al presente e scoprire cosa sta succedendo in Europa alle Big Tech.
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Big Tech sotto i riflettori europei
La settimana scorsa la Commissione Europea ha annunciato la lista dei 19 provider di servizi digitali che a fine febbraio hanno certificato più di 45 milioni di utenti attivi al mese. Per la Commissione si tratta di “gatekeeper”, ovvero “guardiani” alle porte d’accesso ai business online, colossi tecnologici che impedirebbero il fluido collegamento fra chi offre un servizio digitale e chi desidera usufruirne. Ancora una volta stiamo parlando di quelle piattaforme online così grandi che risulta ormai impossibile continuare a definire “too big to care”.
La stretta europea sulle Big Tech era iniziata alla fine dello scorso anno con il Digital Markets Act e il Digital Services Act. Con essi sono stati sanciti una serie di obblighi che le Big Tech avrebbero dovuto rispettare per favorire la nascita di nuove start up in grado di offrire servizi diversi e di valore, proteggere i diritti dei consumatori e istituire un quadro chiaro in materia di trasparenza online. Un modo per eliminare (o perlomeno limitare) quella curvatura del mercato in favore dei gatekeeper e stimolare l’innovazione responsabile.
La lista dei 19 provider di servizi digitali nel mirino della Commissione europea si estende da Google a Apple, passando per Microsoft, TikTok, Amazon, Twitter, AliExpress, Booking, Pinterest, Snapchat, Wikipedia e Zalando. Da oggi sorvegliati speciali per Bruxelles, le sopracitate Big Tech dovranno seguire pedissequamente le direttive su trasparenza, tutela di utenti e lotta alla disinformazione contenuti nel Digital Services Act se vorranno continuare a restare attive in Europa.
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Adeguarsi o fare le valigie
Entriamo nello specifico: cosa dovranno fare le Big Tech per poter continuare a operare in modo indisturbato all’interno dell’Unione Europea?
I 19 nel mirino avranno una responsabilità maggiore nei confronti della società e ci sarà uno scrutinio regolatorio più stringente. Sarà predisposto l’obbligo di autorizzare ai ricercatori l’accesso ai meccanismi di funzionamento dei loro algoritmi non solo per favorire la trasparenza nei confronti degli utenti, ma anche per una più tecnica questione legata alla concorrenza. In sostanza, in assenza di una chiara regolamentazione sulla trasparenza degli algoritmi, tutti i mercati sottostanti che lavorano grazie a essi potrebbero risentirne in termini di efficienza.
A sommarsi a tutto ciò, le piattaforme dovranno inoltre predisporre gli strumenti per una moderazione dei contenuti rimuovendo tempestivamente quelli ritenuti illeciti, oltre che produrre analisi sui rischi legati ai loro servizi in termini di:
– diffusione di contenuti illegali
– violazione della privacy
– violazione della libertà di espressione
– salute e sicurezza pubblica
Come se non bastasse, è anche prevista una stretta sulla profilazione con conseguente divieto di utilizzare i dati sensibili degli utenti.
Temi, questi ultimi, che appassionano gli amanti del digital e che appaiono di importanza essenziale per chi opera nel settore e si avvale delle Big Tech per creare valore.
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Il mercato premia le Big Tech
Se da un lato le regolamentazioni creano più di una rogna ai colossi digitali, arrivano i dati sulle trimestrali ad alleggerire il peso di essere “gatekeeper”. E mentre l’Europa mette un freno al loro operato, l’America ringrazia e gode del loro lavoro.
Giovedì scorso, infatti, le azioni di Wall Street sono risalite ai livelli di gennaio, alimentate dai rapporti sugli utili delle Big Tech rilasciati recentemente. Sono Microsoft, Amazon, Alphabet e Apple i migliori contributori, ma il primo posto se lo aggiudica a sorpresa Meta, con un balzo del 15%. Il motivo va ricercato nei risultati più forti del previsto, ma non solo. Gli investimenti nell’intelligenza artificiale (tema a cui siamo particolarmente affezionati) e la nuova linfa data alla pubblicità online hanno giocato un ruolo chiave.
E il metaverso? Ecco, forse tutti i proclami roboanti di Zuckerberg a riguardo non sono stati in grado di concretizzarsi in una visione di business capace di apportare un reale valore al suo prodotto quanto lo abbia fatto l’intelligenza artificiale, sia nei confronti di Meta che in quelli degli altri colossi.
Eppure non tutti hanno potuto beneficiare appieno dell’innovazione che l’intelligenza artificiale ha portato con sé. Con l’uscita di Bard abbiamo parlato dei rischi a cui l’ormai storico modello di business di Google sarebbe stato sottoposto. E, in effetti, sebbene l’amministratore delegato avesse provato a rassicurare gli investitori, i suoi risultati in borsa non sono stati così positivi.
Nella call a commento dei conti, la parola “AI” è stata pronunciata un numero inedito di volte, a testimonianza dell’impegno dei big della tecnologia sul fronte delle intelligenze artificiali.
Sebbene i tassi di crescita siano ben lontani da quelli di due anni fa, oggi possiamo comunque affermare con certezza che le previsioni più pessimistiche sono state ampiamente disattese.
Guardando alle Big Tech nel loro insieme, i buoni risultati sono legati alla pubblicità online e alle infrastrutture tecnologiche, due aree di interesse strategiche per chi vuole fare business online servendosi del prodotto delle major digitali.
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